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LA CURVA (Blog)

LA CURVA

(blog di recensioni, avvistamenti, storie di baseball – a cura di Alessio “Batman” Marzaduri) 

Per pubblicare un contributo in questa pagina, inviate una mail a ferrarabaseball@gmail.com, inserendo in oggetto “BLOG”. Il materiale sarà soggetto all’approvazione degli amministratori.

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recensioni

LA SQUADRA PIU’ SCASSATA DELLA LEGA

MAJOR LEAGUE, di David S. Ward (Usa, 1984, commedia, sportivo). Con: Charlie Sheen, Tom Berenger, Wesley Snipes, Margaret Whitton

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Diventata proprietaria dei Cleveland Indians, ex showgirl priva di scrupoli mette insieme di proposito una squadra votata al fallimento, allo scopo di rescindere il contratto con la città e trasferire la società a Miami. Inizialmente il piano funziona: le mediocri prestazioni della raffazzonata formazione, composta da giovani senza esperienza e veterani in declino, riducono ai minimi la già magra popolarità degli Indians. Ma i giocatori, venuti a conoscenza del losco intrallazzo, hanno un sussulto di orgoglio e risalgono la china fino all’insperato successo finale.

Diventata nel tempo oggetto di culto non solo tra gli appassionati di baseball, “Major League” è una commedia saporita e scoppiettante, messa in scena da una squadra di attori spiritosamente a proprio agio in diversi ruoli finemente caricaturali. Tom Berenger interpreta Jake Taylor, un catcher malridotto sul viale del tramonto, finito a giocare nella lega messicana e tormentato da un’infelice separazione; Charlie Sheen è “Wild Thing” Rick Vaughn, lanciatore ex-galeotto esplosivo, collerico e inconsapevolmente miope; Wesley Snipes è Willie Mays Hayes, pessimo battitore ma corridore inafferrabile; Dennis Haysbert è Cerrano, fuoricampista devoto alla religione Voodoo. La semplicità della trama è arricchita da una girandola di gag originali e spesso memorabili: dagli esilaranti primi allenamenti ai rituali mistici officiati da Cerrano negli spogliatoi, dai perfidi tentativi presidenziali di rovinare la vita ai giocatori ai loro molti stratagemmi per migliorare la propria performance. Indimenticabili le radiocronache dello schietto e verace Harry Doyle, interpretato dall’ex giocatore Bob Uecker.

Tra le pellicole più amate nel suo genere, “Major League” risultò in qualche modo anche un film profetico: effettivamente nei primi anni ’90 gli Indians stagnavano nella parte bassa della classifica, con poche e deludenti apparizioni ai playoff e nessuna partecipazione ai campionati assoluti addirittura dal 1954. Il successo della pellicola contribuì non poco al ritorno di visibilità e simpatia intorno alla squadra di Cleveland, che nel 1994 vinse l’American League tornando alle World Series, perse dopo un’esaltante serie a favore degli Atlanta Braves trascinati da Greg Maddoux.

pubblicato il 27 ottobre 2019

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BASEBALL CARDS 13

IL COLPO UDITO IN TUTTO IL MONDO

Raph Branca (Mount Vernon, 6 gennaio 1926 – Rye, 23 novembre 2016)

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La storia dello sport è un mosaico di momenti epici in grado di legare allo stesso filo gloria e onta, Ettore e Achille, di proiettare insomma nell’immaginario e nella memoria collettiva i vincitori quanto i vinti. Il portiere Barbosa subì tutta la vita l’ingiusta condanna a responsabile unico del “Maracanazo”, la sconfitta del Brasile ad opera dell’Uruguay nella finale dei Mondiali del ’50. Nel 2002, il pattinatore Steven Bradbury vinse l’oro Olimpico a Salt Lake City approfittando di una incredibile catena di cadute dei più quotati avversari. Nella storia del baseball, il più leggendario “perdente” è universalmente riconosciuto in Ralph Branca, lanciatore dei Brooklyn Dodgers protagonista di quello che fu definito il “Colpo udito in tutto il mondo”. Correva l’anno 1951, ed era in corso lo spareggio tra New York Giants e Brooklyn Dodgers valido per l’accesso alle World Series. Serie ferma sull’1-1, si giocava la bella al meglio delle tre partite. Diretta televisiva in tutti gli Stati Uniti, per la prima volta nella storia. Nono inning, Dodgers in vantaggio 4-1. Branca era un lanciatore esperto, ritenuto ideale per chiudere la serie; i Giants segnarono il 4-2 e poco dopo, con 2 uomini in base e un out, entrò nel box Bobby Thomson. Il conto era uno strike e due ball quando Ralph Branca mise sul piatto una dritta veloce: Thomson la sparò fuoricampo, fissando il punteggio 4-5 e regalando le World Series ai Giants. Della pallina si persero per sempre le tracce: nessuno sa dire chi ne entrò in possesso, che fine abbia fatto; è probabilmente il cimelio sportivo più misterioso e ricercato di sempre, con una possibile quotazione azzardata in milioni di dollari. Ralph Branca lanciò in Major League per 13 anni, con un record di 88 vittorie e 68 sconfitte, 3.79 di media PGL, 829 strike out, tre All Star Game. Fu anche compagno di squadra di Jackie Robinson nella sua stagione di esordio: in parte italiano e in parte ebreo, abituato alle provocazioni ed agli stereotipi, Branca fu tra i primi a schierarsi in favore del grande 42. Eppure, rimase per tutta la vita sempre e solo il lanciatore che aveva concesso quel fuoricampo. Dotato di grande ironia, in fondo profondamente saggio, seppe gestire senza affanni questa popolarità monocorde: anche dopo il ritiro passò la vita girando per l’America per rievocazioni, celebrazioni, sessioni di autografi; ovviamente insieme a Bobby Thompson, cui rimase legato da stima e amicizia sancite dalla consapevolezza di rappresentare le due diverse facce della stessa medaglia. “Sono sposato con Bobby da 17 anni in più che con mia moglie”, scherzò Branca nel 2001. Si spense serenamente in una casa di riposo nel 2016, a 90 anni, ultimo giocatore in vita dei Brooklyn Dodgers 1947.

Pubblicato il 22 agosto 2019

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recensioni

UNA PALLA SMARRITA, UN’AMERICA PERDUTA

 UNDERWORLD, di Don De Lillo –  Torino, Einaudi, 1999

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Brooklyn 1951, gara cinque delle World Series tra Dodgers e Giants. Un fuoricampo all’ultimo inning chiude la partita. Sugli spalti, la palla viene raccolta da un ragazzino. Il padre gliela sottrae vigliaccamente, rivendendola per pochi dollari. Dopo ciò, il destino di quel resterà un mistero.

Considerato il capolavoro di Don De Lillo, tra i maestri della letteratura postmoderna americana, Underworld è un monumentale ritratto degli Stati Uniti lungo i difficili anni della Guerra Fredda. La frustrante ricerca della palla da baseball perduta, sospesa tra realtà e fiction, non è che la chiave narrativa per descrivere un paese inquieto, ossessionato, stanco e irrinunciabilmente eccessivo. Ognuno dei molteplici personaggi racconta con le proprie sfumature ascesa e declino del sogno americano: un mondo popolato di campioni sportivi ed eroi della classe media, di stelle del cinema e magnati della spazzatura, di scultori disillusi e implacabili serial killer, di irriducibili sognatori e disincantati complottisti. Un universo in cui l’immondizia viene rivenduta come opera d’arte, e su tutto incombe la paura della minaccia nucleare. Epico quanto magniloquente secondo i punti di vista, Underworld non è propriamente un testo agile né accessibile; è più che probabile che una prima lettura possa lasciare perplessi, scoraggiando ulteriori tentativi. Ma di certo tutti gli appassionati di baseball si perderanno volentieri tra le pagine del capitolo introduttivo, con la densa e intensa descrizione dell’attimo fatale in cui Bobby Thompson mise a segno il fuoricampo vincente passato alla storia come “Il colpo udito in tutto il mondo”.

Pubblicato il 22 agosto 2019

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TV Classics

HOMER DANZERINO

THE SIMPSONS, Stagione 2 ep. 5, prima tv 08/10/1990.  Scritto da Ken Levine e David Isaacs, diretto da Mark Kirkland.

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Seduto coi soliti amici alla Taverna di Boe, Homer ripercorre in un lungo flashback la storia della sua grande occasione mancata. Tutto ha inizio durante la serata riservata alle famiglie dei dipendenti della Centrale Nucleare, organizzata dal Signor Burns allo stadio degli Isotopi di Springfield. Quando Homer inizia con varie pagliacciate ad animare il pubblico la squadra locale, per nulla brillante, ha un inaspettato sussulto di orgoglio e vince la partita. Bandito a vita dalle serate organizzate dalla compagnia, Homer viene tuttavia ingaggiato come mascotte ufficiale degli Isotopi: la sua crescente popolarità viaggia di pari passo con l’escalation di successi della squadra; fintanto che ad Homer “Danzerino” viene offerta l’opportunità di trasferirsi a Capitol City, diventando mascotte di una squadra di Major League.

Trasmesso per la prima volta l’8 novembre 1990, Homer danzerino è il primo dei tanti episodi de I Simpsons in qualche modo collegato al mondo del baseball. L’inevitabilmente sfortunata parabola del protagonista è costellata da una serie di omaggi e citazioni a personaggi e storie vere. Le movenze di Homer sono dichiaratamente ricalcate su quelle di “Wild Bill” Hagy, celebre capotifoso dei Baltimore Orioles negli anni ‘70. Il monologo con cui papà Simpson saluta i tifosi degli Isotopi prima di trasferirsi nella capitale è un chiaro riferimento al commiato del grande Lou Gerhig agli Yankees. Lo stadio di Capitol City è coperto da una cupola avveniristica come l’Astrodome di Houston. Tony Bennett, nel ruolo di sé stesso, canta il pezzo confidenziale Capitol City Swingin Home (parecchio simile a New York, New York). Infine, il “Minchione” di Capitol City è una sublime sintesi di ogni possibile pupazzone strillante da stadio americano.

Da antologia l’affermazione di Homer alla vigilia della sua grande chance:
“Bart era stranamente silenzioso; più tardi mi avrebbe confessato di essere confuso per aver provato rispetto per me. Ma non sarebbe durato…”

Pubblicato il 3 agosto 2019

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BASEBALL CARDS 12

IL GEORGE BEST DEL BASEBALL

Mickey Charles Mantle (Spavinaw, 20 ottobre 1931 – Dallas, 13 agosto 1995)

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Proveniente dalle vaste pianure dell’Oklahoma, Mickey Mantle giocò tutta la propria carriera, dal 1951 al 1968, nei New York Yankees. Esterno e prima base, vinse per sette volte le World Series a fianco di altri campioni come Joe di Maggio e Yogi Berra. Le sue prodezze in difesa furono particolarmente determinanti nell’epica serie 1956 contro i Dodgers di Jackie Robinson: in gara cinque negò un sicuro fuoricampo agli avversari, aiutando peraltro il proprio lanciatore Don Larsen a mettere a segno l’unico Perfect Game della storia delle finalissime. Ma Mantle fu soprattutto uno straordinario battitore: proprio nel ’56 vinse la tripla corona, risultando per la prima volta (di tre in carriera) MVP dell’American League. Fu leader nei fuoricampo anche nel ’55, ’58 e ’60. Da professionista segnò complessivamente 2415 valide, 536 fuoricampo e 1509 punti battuti a casa. Detiene ben sette record individuali nelle World Series: fuoricampo (18), RBI (40), punti segnati (42), basi ball conquistate (43), basi totali raggiunte (123). Nella stagione 1961, Mantle e il compagno di squadra Roger Maris (soprannominati “M&M boys”) superarono entrambi il record di fuoricampo stagionali stabilito trentaquattro anni prima da Babe Ruth; il nuovo record (61 HR) resistette fino al 1998, ritoccato a 70 da Mark McGwire. Membro della Hall of Fame dal 1974, nel 1999 sarebbe stato inserito anche nella “Formazione del secolo”.

Nonostante le prodezze sul campo, fuori dagli stadi Mantle condusse una vita sregolata, combattendo fin da giovane con una forte dipendenza dall’alcool che condizionò irreversibilmente anche il destino della sua famiglia. Una china tragica, simile a quella di sportivi come Garrincha o George Best. Tentò più volte di disintossicarsi, e come lui la moglie Marlyn; a causa di problemi con la droga, la coppia perse un figlio nel 1994, mentre un secondo sarebbe morto nel 2000. Proprio nel 1994, Mantle scoprì di essere affetto da cancro del fegato; si sottopose ad una serie di ricoveri, perfino ad un trapianto che scatenò un caso mediatico (sorpresero la rapidità dei tempi di reclutamento del campione in lista di attesa, e ancor più il rapido reperimento di un donatore compatibile). Morì nell’agosto del 1995, a sessantatré anni, poche settimane dopo aver rilasciato in un’intervista un amaro congedo: “Se solo avessi saputo che sarei vissuto tanto a lungo, mi sarei preso più cura di me stesso.

Pubblicato il 27 luglio 2019

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BASEBALL CARDS 11

YOGI

Lawrence Peter Berra (Saint Louis, 12 maggio 1925 – Montclair, 22 settembre 2015)

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Si dice che il soprannome gli fosse stato dato da un compagno di squadra per la posa meditativa che spesso assumeva in panchina. Si dice ancora che il celebre orso dei cartoni animati sia stato chiamato così in suo onore. Nato in Missouri da una famiglia di origine lombarda, Yogi Berra debuttò nel baseball professionistico nel 1946 con la maglia degli Yankees. Ricevitore dalle non comuni capacità di analisi e dalle infinite conoscenze tattiche, nel 1947 vinse per la prima volta le World Series. Avrebbe conquistato il titolo altre dodici volte: nove da giocatore, con una striscia di cinque successi tra il 1949 e il 1953, di cui l’ultimo nel curioso ruolo di player/coach sull’altra sponda del fiume Hudson, coi Mets di Nolan Ryan. Non si fermò nemmeno da tecnico, nuovamente diviso tra Yankees e Mets, aggiudicandosi l’anello altre tre volte. Nessun altro giocatore o allenatore di baseball ha vinto quanto lui. Nel 1986 accettò di condurre il progetto di rilancio della squadra di Houston, dove ritrovò l’ex compagno Ryan: Berra portò gli Astros tra le prime formazioni nel panorama Major League, scoprendo tra l’altro l’immenso talento di Craig Biggio, come lui catcher. Riconosciuto ed ammirato per la sua personalità, forte ma garbata, Yogi divenne famoso anche per i suoi aforismi: sua la celebre frase “It ain’t over ‘til it’s over”, che ha insegnato a generazioni di amanti del baseball a non gettare mai la spugna perché “non è mai finita finché non è finita”.

Deceduto in una residenza per anziani nel 2015, Berra fa parte della Hall of Fame di Cooperstown dal 1972. E’ tra i soli quattro giocatori ad essere stato nominato tre volte MVP dell’American League, e uno dei sei manager ad aver portato alle World Series sia una squadra dell’American League che una della National League. Nel 1999, la rivista Sporting News‍ lo ha inserito al 40º posto nella classifica dei migliori cento giocatori di tutti i tempi.

Pubblicato il 26 luglio 2019

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BASEBALL CARDS 10

TRE DITA

Mordecai “Three fingers” Brown  (Nyesville, 19 ottobre 1876 – Terre Haute, 14 febbraio 1948)

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Mordecai Peter Centennial Brown è giustamente annoverato tra i più celebri e forti lanciatori dei primi del ‘900, e il suo stile è stato spesso oggetto di studio ed imitazione. Il tutto a dispetto di (o forse proprio grazie a) una menomazione grave occorsagli quando era solo un ragazzo. Cresciuto in una famiglia di agricoltori dell’Indiana, rimase infatti vittima di un incidente con una falciatrice, perdendo completamente l’indice della mano destra oltre alla piena funzionalità del medio. Il giovane non si fece problema dell’amputazione, e con una costante pratica affinò uno stile tutto suo; la forzata ma particolare impugnatura conferiva infatti notevoli sfumature ai lanci di Brown, che in carriera divenne impareggiabile negli effetti secondari come curva e cambio. Dopo un lungo periodo nelle leghe minori nel quale giocò per una squadra di minatori, esordì coi Cardinals nel 1903, alla non verdissima età di ventisei anni. L’anno successivo passò ai Cubs, coi quali rimase fino al 1912 arrivando a disputare due volte le World Series; giocò poi alcuni anni nell’oggi scomparsa Federal League, per tornare nuovamente a Chicago nel 1916 chiudendo la carriera a quarant’anni suonati. Da professionista, “Tre dita” Brown disputò un totale di 369 partite, vincendone 239 e collezionando 1375 strikeout. Pur essendo opportuno sottolineare le notevoli differenze tra campionati e atleti di epoche così distanti , la sua media PGL (2,06) risulta ancora oggi la terza migliore di tutti i tempi, perfino superiore a quella di mostri sacri come Nolan Ryan, Greg Maddoux e Sandy Koufax. Mordecai Brown morì per complicanze legate al diabete nel 1948, nelle terre di origine dove si era ritirato a gestire una stazione di servizio. Venne introdotto nella Hall of Fame nel 1949.

Pubblicato il 9 luglio 2019

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recensioni

CHI HA RUBATO DARLIN?

PICCOLO GRANDE EROE, di Colin Brady (Usa, 2006, animazione)

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New York, Grande Depressione. Il piccolo Yankee Irving è un ragazzino che come tanti sogna di diventare un famoso campione di baseball, sebbene non dimostri doti atletiche eccezionali e nonostante le facili ironie di molti suoi coetanei. La famiglia di Yankee  sopravvive grazie al lavoro del padre, impiegato nello stadio della città; un giorno Darlin, la mazza portafortuna di Babe Ruth, viene rubata, e la colpa ricade ingiustamente sul papà di Yankee che viene licenziato. Il figlio decide di scagionarlo e si mette alla ricerca della mazza, in un lungo viaggio che lo porta fino a Chicago alla ricerca del vero autore del furto.  Lo accompagnerà nell’impresa Screwie, una simpatica pallina da baseball parlante.

Prodotto e co-diretto da Christopher Reeve, compianto Superman cinematografico anni ’70, Piccolo grande eroe è un film di animazione da segnalare soprattutto ai più giovani e ai neofiti del batti e corri. La pellicola non è priva di aspetti artisticamente opinabili: dalla scelta demodé di oggetti parlanti come coprotagonisti, alla forse eccessiva stilizzazione dei caratteri, utile comunque a lanciare sui giusti binari alcune gag azzeccate (come i gustosi battibecchi tra mazza e pallina). Tuttavia, la confezione favolistica mette al centro messaggi rilevanti, come l’importanza di credere in sé stessi, non arrendersi mai e andare fino in fondo: elementi mai banali che ingentiliscono senza didascalismi un prodotto per famiglie, trasformando di fatto un “filmetto piacevole” in una piccola parabola sulla unicità di ciascuno di noi. Uno spettacolo le cui intenzioni superano largamente la resa estetica, e che per i suoi lodevoli sottintesi educativi non può mancare nella cineteca di ogni amante del baseball.

Pubblicato il 28 giugno 2019

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BASEBALL CARDS 9

UN CAMPIONE CONTROVERSO

Josè Canseco Capas Jr.  (L’Avana, 2 luglio 1964)

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Nato a Cuba e trapiantato nella folta comunità di origine della zona di Miami, Josè Canseco esordì in Major League nel 1985 con la maglia degli Oakland Athletics, dopo tre lunghi anni di sviluppo nelle leghe minori. Dotato di struttura fisica imponente, esplosivo nella rotazione del bacino e molto abile nella lettura dei lanci, affermò progressivamente la propria importanza nel lineup dei californiani. Dopo l’anno di grazia 1988, nel quale venne nominato MVP dell’America League vincendo nel contempo il titolo di miglior battitore, fuoricampista e leader RBI, Canseco portò gli Athletics, guidati dal manager Frank La Russa e tra i quali figurava anche il debuttante Mark McGwire, alla conquista delle World Series nel 1989 contro i Giants. Dopo aver cambiato numerose casacche dal 1992 (Texas Rangers, Boston Red Sox, Toronto Blue Jays, Tampa Bay Rays, ancora una parentesi ad Oakland nel ’97), l’esterno Canseco si specializzò nel tempo come battitore designato, vincendo nuovamente (sebbene non da protagonista) l’anello nel 2000 con gli Yankees di Derek Jeter. Nominato sei volte All Star, con 462 fuoricampo occupa il trentasettesimo posto nella lista dei 300 migliori slugger di ogni tempo. Fratello gemello di Ozzie, che pure ebbe una breve carriera nelle Major, Canseco ha sempre sfruttato la propria popolarità costruendosi fuori dal campo un’immagine estroversa e tuttavia ambigua. Nel 2005, sconvolse il mondo sportivo ammettendo di aver fatto uso di steroidi anabolizzanti, dichiarazione confermata anche nel Rapporto Mitchell del 2007. Canseco fece molti nomi eccellenti, affermando che la maggior parte dei professionisti del baseball da lui conosciuti ricorresse largamente alla pratica del doping. Prima e dopo questa vicenda, è stato coinvolto in risse e spettacoli televisivi, ha partecipato ad un reality show con Jenna Jameson, è apparso in un episodio de I Simpson di cui però contestò trama e battute. Vanta anche una breve carriera nelle arti marziali miste, avendo disputato  nel 2009 il suo unico match contro il colossale coreano Hong Man Choi, perso al primo round dopo poco più di un minuto.

Pubblicato il 19 giugno 2019

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recensioni

IN MISSIONE OLTRE IL DIAMANTE

IL CATCHER E’ UNA SPIA, di Ben Lewin (Usa, 2018, azione, drammatico). Con: Paul Rudd, Mark Strong, Paul Giamatti, Sienna Miller

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Seconda Guerra Mondiale. Mentre l’America avanza negli esperimenti sull’atomica Moe Berg, catcher dei Boston Red Sox, viene arruolato dai servizi segreti e spedito in Europa. La sua missione è fermare il fisico Werner Heisenberg, le cui conoscenze potrebbero portare al nucleare la Germania nazista prima degli Alleati. Girato tra Boston e Praga, The Catcher was a spy è basato sulla storia vera di Morris Berg come raccontata nel libro La doppia vita, di Nicholas Dawidoff. A metà strada tra biopic, dramma e film di guerra, la pellicola snoda una trama esile con discreto ritmo narrativo, pur lasciando numerosi dubbi rispetto all’esattezza nella ricostruzione degli eventi. Cast affidabile, con Paul Giamatti e Jeff Daniels in due ruoli secondari, e un cameo per il nostro Pierfrancesco Favino. Apparentemente centrale stando al titolo, il baseball in realtà non è che un pretesto, tuttavia fondamentale per inquadrare il protagonista; pare infatti vero che Berg fu scelto come spia per la facile copertura offerta dalla propria popolarità, ed anche perché – a differenza della quasi totalità degli sportivi – estremamente erudito e in grado di parlare correntemente numerose lingue. Gli appassionati gradiranno le scene che ricostruiscono il tour promozionale 1934 organizzato dall’American League  in Giappone, al quale Berg partecipò insieme a stelle del calibro di Babe Ruth. Curiosità: durante la partitella organizzata tra i soldati al fronte, Moe si dichiara umilmente “un pessimo battitore”; in effetti, la media in carriera del ricevitore fu .243, un dato considerato per gli standard dell’epoca poco più che sufficiente.

Pubblicato il 12 giugno 2019

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baseball cards 8

L’ULTIMO IMPERATORE

Ichiro Suzuki  (Kasugai, 22 ottobre 1973)

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La straordinaria carriera di Ichiro Suzuki iniziò tra le fila degli Orix BlueWave (oggi Buffaloes), coi quali il giovane esterno vinse il massimo campionato giapponese nel 1996. Si fece notare soprattutto in battuta: mancino per scelta, per raggiungere la prima base in meno tempo, adottò da subito un particolare rituale di attesa nel box: ad ogni lancio puntava il braccio destro verso il lanciatore e si tirava su la manica della casacca. Dopo quattro stagioni perfino superiori al già di per sé competitivo livello di gioco del suo paese, Ichiro firmò nel 2000 un contratto da tredici milioni di dollari con i Seattle Mariners. Risultò così il primo position player nato in Giappone a giocare in MLB; ereditò il numero di maglia 51 precedentemente indossato da Randy Johnson, al quale promise personalmente che non lo avrebbe “disonorato”. A causa del fisico minuto, molti addetti ai lavori pronosticarono che il giapponese non avrebbe retto i ritmi di una stagione da centosessantadue partite. Il nipponico realizzò nel campionato di esordio 242 valide, record ancora oggi imbattuto per un rookie, risultando primatista assoluto anche per le basi rubate. La straordinaria stagione culminò con l’elezione di Ichiro a MVP dell’American League. Prestazioni sempre più convincenti seguirono anche in difesa: Suzuki è stato nominato dieci volte Guanto d’Oro e altrettante volte All Star. Il campo esterno da lui protetto al Safeco Field venne ribattezzato Area 51. Dopo undici stagioni a Seattle, passò agli Yankees fino al 2014, quindi ai Miami Marlins fino al 2017: in Florida, dopo aver mantenuto media battuta sempre costante, raggiunse le tremila valide in carriera entrando a far parte dell’omonimo Club 3000. Ritornato ai Mariners nella stagione 2018, si è laureato giocatore non nato negli Stati Uniti  a battere il maggior numero di valide in carriera. Pur non avendo mai vinto un titolo in America, ha guidato la sua nazionale alla conquista del World Baeball Classic nel 2006 e nel 2009, anno in cui un sondaggio lo ha definito il giapponese più famoso ed ammirato, anche più dello stesso Imperatore. Dopo diversi annunci (“Smetterò solo quando avrò bisogno di una stampella per camminare”) si è ritirato il 21 marzo 2019.

Pubblicato il 10 giugno 2019

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baseball cards 7

IL MAGO

Ozzie Smith  (Mobile, 26 dicembre 1954)

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Osborne Earl “Ozzie” Smith nacque in Alabama e si trasferì giovanissimo con la famiglia in California. Durante gli studi dimostrò straordinarie doti di atleta: gli eccellenti riflessi lo aiutarono ad imporsi nel baseball già alle superiori e quindi al college. Scelto al draft dai San Diego Padres, debuttò in Major League nel 1978. Due anni dopo ricevette la prima convocazione All Star, aggiudicandosi anche il Guanto d’Oro, che avrebbe conquistato ininterrottamente per altre quattordici edizioni fino al 1992. Considerato tra i migliori interbase di ogni tempo, negli anni ’80 divise il cuore degli appassionati con l’idolo degli Orioles, Cal Ripken Jr, generando dibattito su chi dei due fosse il più grande. Rispetto a Ripken, più fisico e particolarmente prolifico in attacco, Smith poteva contare su una miglior lettura tattica e una straordinaria abilità nel trattare la palla, che sembrava letteralmente sparire tra le sue mani per ricomparire in base (da qui il soprannome Wizard). Detiene ad oggi il record assoluto di assistenze per un interbase (oltre ottomila), e a lungo ha detenuto anche il maggior numero di doppi giochi in carriera (primato poi ritoccato da un altro immenso SS, il venezuelano Omar Vizquel). Nel suo ruolino personale, 2460 valide e 580 basi rubate. Ceduto nel 1982 ai Cardinals, rimase a Saint Louis fino al 1996, vincendo al primo anno di permanenza le World Series in una tiratissima serie contro i Brewers di Milwakee. Nel 1992 venne inserito tra le guest stars nell’episodio de “I Simpsons”  Homer alla battuta, nel quale finisce disperso in un’altra dimensione dopo aver visitato il “Luogo Misterioso di Springfield”. Annunciò il proprio ritiro nel 1996, a seguito dei postumi di un brutto infortunio alla spalla e a contrasti col manager Tony La Russa; nonostante l’ultimo aspetto, i Cardinals ritirarono il suo numero di maglia (1).

Pubblicato il 1 giugno 2019

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baseball cards – 6

THE ROCKET

Roger William Clemens  (Dayton, 4 agosto 1962)

CHICAGO - JULY 15: American League pitcher Roger Clemens #22 from the New York Yankees throws against the National League in the third inning of the 74th Major League Baseball All-Star Game on July 15, 2003 at U.S. Cellular Field in Chicago, Illinois. The American League won 7-6. (Photo by Matthew Stockmanl/Getty Images)

Roger Clemens è annoverato a giusta ragione tra i più grandi lanciatori di tutti i tempi. L’imponente palmares del “Razzo” parla chiaro: oltre a due World Series, entrambe conquistate sul monte degli Yankees (1999, 2000), Clemens è stato undici volte All Star, quattro volte leader della MLB per numero di vittorie, sette per media PGL e cinque per numero di strikeout stagionali, ottenendo la tripla corona nel 1997 e nel 1998. Inserito nel bullpen della “Formazione del secolo” stilata nel 1999, il pitcher di Dayton detiene inoltre il record di vittorie al Cy Young Award, premio assegnato al miglior lanciatore della Major League: sette, due più dell’immenso ex compagno di squadra Randy Johnson.
Dotato di un fisico massiccio e praticamente immune agli infortuni (l’unico veramente rilevante nel 2007, a fine carriera), Clemens deve il proprio soprannome all’esplosività della sua palla veloce, perla di un repertorio comunque tra i più completi ed efficaci mai esibiti su una pedana. Per dodici anni bandiera dei Boston Red Sox, dopo una fortunata parentesi personale coi Toronto Blue Jays consacrò definitivamente la sua carriera a New York, con cui disputò cinque stagioni da dominatore prima del trasferimento agli Astros di Houston. Nel 1992 venne inserito tra le guest star nell’episodio de I Simpsons “Homer alla battuta”. Il nome di Clemens fu purtroppo inserito nel Rapporto della Commissione Mitchell (2007) sulla diffusione dell’uso degli steroidi nella pratica agonistica; Rocket ha respinto sempre ogni addebito, definendo i testimoni contro di lui “inattendibili e con problemi”. Dopo un lungo percorso giudiziario culminato con una controdenuncia per diffamazione, Clemens fu scagionato da ogni accusa nel 2008.

Pubblicato il 27 maggio 2019

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TV Classics

HOMER ALLA BATTUTA

THE SIMPSONS, Stagione 3 ep. 17, prima tv 20/02/1992.  Scritto da John Swartzwelder, diretto da Jim Reardon.

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La squadra amatoriale della Centrale Nucleare di Springfield è da sempre fanalino di coda del campionato aziendale. Le cose cambiano quando Homer, esterno destro, inizia a usare la “mazza miracolosa” da lui ricavata dal legno di un albero abbattuto da un fulmine (…ricorda niente? allora leggete nel blog la recensione del film “Il migliore”). Trascinati dalla improvvisa esplosione in media bombardieri di Homer, gli impiegati della Centrale scalano la classifica; così, il proprietario Montgomery Burns si esalta al punto da scommettere un milione di dollari sulla vittoria finale con Arisotele Amodopolis, proprietario dell’impianto di Shelbyville. Per non correre rischi inutili, Burns relega in panchina i giocatori titolari, schierando al loro posto nove superstar della Major League messe sotto contratto con incarichi fittizi alla Centrale. Alla vigilia del grande incontro, tutti i campioni restano però vittime dei più improbabili incidenti e contrattempi, e Burns è costretto a schierare la formazione ufficiale… con l’eccezione di Homer, sostituito dal più che integro Darryl Strawberry.

Primo ma non ultimo episodio de I Simpsons collegato al mondo del baseball, “Homer alla battuta” andò in onda il 20 febbraio 1992; lo share fu tale che, per la prima volta, lo show di Matt Groening batté gli ascolti in prima serata de I Robinson. La forza comica dell’episodio si fonda soprattutto sul ricco cast di guest stars, che peraltro doppiano sé stesse: oltre a Strawberry compaiono “in squadra” Mike Scioscia, Roger Clemens, Wade Boggs, Ken Griffey Jr., Steve Sax, Ozzie Smith, Don Mattingly e Josè Canseco (che non apprezzò minimamente la sua caricatura, né il copione a lui attribuito). Sublime la catena di sfortuna che si abbatte sui campioni, e geniale la trovata finale che – di fatto – renderà Homer MVP del campionato. Una curiosità: quando è in campo come manager della squadra, Burns indossa una casacca col logo Zephyrs; si tratta di un omaggio a “L’invincibile Casey”, celebre episodio della serie televisiva Ai confini della realtà.

Pubblicato il 22 maggio 2019

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recensioni

UNA SECONDA OCCASIONE

IL MIGLIORE, di Barry Levinson (Usa, 1984, fantastico, sportivo). Con: Robert Redford, Glenn Close, Kim Basinger, Robert Duvall

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Roy Hobbes è una giovane promessa del baseball di immenso talento naturale. Spinto dal padre a coltivare le proprie doti, Roy parte per Chicago e per una sicura carriera di successo coi Cubs; in viaggio fa conoscenza con una donna misteriosa che, dopo avergli sparato, si suicida distruggendo di colpo anche il suo futuro. Rimasto per lunghi anni lontano dal proprio sogno, ormai ultratrentenne Roy viene ingaggiato dai rappezzati New York Knights: la classe è ancora quella di una volta, e Hobbs porta velocemente la propria mediocre compagine alla ribalta del campionato. Ma il destino è sempre in agguato: potenti speculatori, proprietari corrotti, scommettitori e giornalisti a caccia di uno scoop morboso fanno di tutto per cercare di fiaccare forza e volontà del campione, che nonostante ogni cosa congiuri contro di lui andrà avanti fino in fondo, arrivando alla finale attesa una vita.

Tratto dal capolavoro di esordio di Bernard Malamud best seller dal 1952, Il migliore è senza dubbio uno tra i più noti ed apprezzati film sul baseball. La misurata interpretazione di un Robert Redford ancora in epoca d’oro, il dualismo Kim Basinger – Glenn Close, la celebre colonna sonora, e le tante belle sequenze di gioco sono scolpiti nell’immaginario, ed hanno generato nel tempo numerosi omaggi e citazioni (ad esempio, in più di un episodio de I Simpson).

Come spesso succede nelle trasposizioni, le differenze rispetto al libro sono tante; a partire dalla scelta di un finale diametralmente opposto, probabilmente l’unico ammissibile nell’America felice dell’epoca raeganiana. Nel testo (scritto invece ai tempi del maccartismo), ogni possibilità di redenzione e grazia è negata, e Hobbes vede nuovamente distrutto da un mondo meschino ed ingiusto tutto quello in cui ha creduto. Al contrario, nel film il campione se ne infischia della sorte e trionfa in barba a tutti, ritrovando in sovrapprezzo la donna della sua vita con cui si ritirerà a serena vita privata. Le due versioni funzionano a prescindere, a patto di non sceglierne una e di godere pienamente il senso di entrambe, alla luce del contesto in cui le due opere sono state prodotte. Nella trasposizione al grande schermo guadagna immensamente il non-personaggio di Wonderboy, la mazza che Hobbs si è fatto da sé e che diventerà simbolo delle sue prodezze: presente ma meno centrale nel libro, nel film la mazza si ammanta di un alone sovrannaturale che ne fa una specie di Excalibur, capace di polverizzare palline, infrangere tabelloni segnapunti e devastare impianti di illuminazione.

Pubblicato il 13 maggio 2019

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baseball cards – 5

L’UOMO PIU’ FORTUNATO CHE SIA MAI ESISTITO

Henry Louis “Lou” Gehrig (New York, 19 giugno 1903 – 2 giugno 1941)

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Lou Gherig, newyorkese purosangue, esordì nel 1923 come battitore di riserva dell’allora mediocre squadra degli Yankees. Di lì a poco, l’opaca formazione avrebbe acquistato i migliori giocatori dei Boston Red Sox, tra cui Babe Ruth, inaugurando uno tra i più lunghi periodi vincenti della storia dello sport. Quattro anni più tardi, quando la grande mela vinse per la prima volta le World Series, Gerhig era già stabilmente titolare, e lo rimase per sedici stagioni complessive. In difesa giocava in prima base, ma al pari dei compagni Combs, Hoyt e lo stesso Ruth era in attacco che mostrava tutta la sua grandezza. Due volte MVP dell’American League, sette volte All Star, tre volte primatista nei fuoricampo e cinque volte per gli RBI, Gehrig conquistò le World Series nel 1927, 1928, 1932 e quindi dal ’36 al ’38. Nel 1934 conquistò la tripla corona risultando primo per fuoricampo, RBI e media battuta. Fino al 1995, detenne anche il record per il maggior numero di partite disputate consecutivamente (ben 2130).

Nel 1939, dopo aver lungamente sofferto di strane lombalgie, risultò ammalato di una patologia neurologica allora sconosciuta, la sclerosi laterale amiotrofica (che all’epoca venne quindi definita Morbo di Gerhig). Il 4 luglio dello stesso anno, il campione salutò i suoi 60000 tifosi allo Yankee Stadium, pronunciando un commovente discorso:

Amici, nelle due ultime settimane sarete sicuramente venuti a conoscenza del difficile momento che sto attraversando, ma voglio dirvi che oggi mi sento l’uomo più fortunato della terra. Sono stato presente sul campo da baseball per diciassette anni e ho sempre ricevuto affetto e incoraggiamenti da voi che siete i miei fan. Guardate questi grandi uomini. Chi di voi non vorrebbe essere al punto culminante della propria carriera solo per paragonarsi a loro almeno un giorno nella vita? Certo che sono fortunato. Chi non considererebbe un onore il fatto di aver conosciuto Jacob Ruppert? E anche Ed Barrow, la persona più importante nel baseball? O il fatto di aver trascorso sei indimenticabili anni con Miller Huggins, il mio grande amico? Oppure di aver trascorso i successivi nove anni con quel fantastico leader, brillante studente di psicologia e miglior manager che il baseball abbia mai avuto, Joe McCarthy? Certo che sono fortunato. Quando la squadra dei New York Giants, una squadra che per batterla daresti anche il tuo braccio destro, e viceversa, ti fa un regalo, questo è fantastico. Quando tutti fino agli addetti del campo o quei giovani vestiti di bianco si ricordano di te perché hai vinto tanti premi, questo è fantastico. Quando avete una suocera meravigliosa che si schiera a vostro favore nei battibecchi con sua figlia, questo è fantastico. Quando vostro padre o vostra madre lavorano sodo per tutta la vita per darvi un’educazione o per far sì che voi possiate allenarvi in qualche sport, è una benedizione. Quando al vostro fianco avete una moglie forte che vi sostiene e che dimostra molto più coraggio di quello che abbiate mai potuto immaginarvi, è la cosa più bella che si possa desiderare. Quindi concludo dicendo che forse sto attraversando un brutto periodo, ma ho tantissimo per cui continuare a vivere.”

Gerhig perse la partita contro il male nel 1941. Il suo numero di maglia, il 4, venne ritirato, come venne chiuso per sempre anche il suo armadietto, ancora oggi parte dell’arredo degli spogliatoi dello Stadium. La sua vicenda, umana e sportiva, ha ispirato il film “L’ idolo delle folle”, interpretato da Gary Cooper.

pubblicato l’8 maggio 2019

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recensioni

UNA RACCOLTA IMPERDIBILE

Beppe Carelli – IL LANCIATORE SCOMPARSO E ALTRE STORIE DI BASEBALL

Milano, Rusconi, 2019

il lanciatore scomparso

La misteriosa scomparsa di un lanciatore finito in un giro più grosso di lui. Le biografie di Shoeless Joe Jackson e Ty Cobb, eroi contemporanei tanto diversi eppure tanto simili. Testimonianze di trasferte in alberghi infestati dagli spettri. Minuziose descrizioni dei più tipici cibi da stadio. Ed emozionanti amarcord del baseball di casa nostra. Pilastro del grande Rimini tra gli anni ’70 e ’80 , riconosciuto tra i migliori giocatori italiani di sempre, Giuseppe “Beppe” Carelli fa il suo trionfale debutto in libreria con una raccolta di racconti che non potrà mancare nella biblioteca di ogni amante del baseball (e dello sport in generale). Gustoso, intelligente, appassionante, Il lanciatore scomparso dà prova del talento e della competenza del suo autore, capace di mescolare sapientemente leggenda ed aneddotica, narrativa e cronaca. Carelli si diverte e fa divertire con cambi di registro e di stile: il brano eponimo ha le tinte hard boiled di un giallo alla Dashiell Hammett, mentre Black Batsie è un’agiografia che funziona anche rinunciando ai dettagli arcinoti dello scandalo “Black Sox’. Saporito l’intermezzo Travelling Blues, nostalgica ballata folk i cui eventi ruotano attorno allo stadio di Ebbetts Field, elettrizzante l’alone di mistero intorno al Pfiser Hotel di Milwakee, e alle sue presunte presenze. La seconda parte dell’antologia, come anticipato, è una galleria di ricordi più intimi e personali: dalla prima partecipazione olimpica della Nazionale a Seul, durante la quale Roberto Bianchi e compagni sconfissero la Repubblica Dominicana e conobbero Frank Zappa; all’impresa di Ezio Manni, lanciatore nettunese campione Europeo Under 18; fino al delicato ricordo di Mike Pagnozzi e David Malpeso, compagni di squadra e di viaggio, scomparsi prematuramente. Scaldata la platea, l’autore condensa le memorie di una carriera quasi stringendo col pubblico un garbato accordo a tramandarne ricordo. E assicuriamo che per il lettore non sarà facile sottrarsi a questo gioco: perché Carelli è scrittore che mette sul piatto tutto e non chiede nulla in cambio. Come sanno fare solo i campioni.

Pubblicato il 30 aprile 2019

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segnalazioni

JIMMY BONNER, STORIA DI UN CASUALE PIONIERE DIMENTICATO

bonnerimageRiceviamo e condividiamo volentieri la segnalazione di una bella storia, recentemente pubblicata dal sito Conto Pieno: quella di James Everett Bonner,  primo giocatore afroamericano a militare nel massimo campionato di baseball giapponese. Il debutto di Bonner nel paese del Sol Levante avvenne circa dieci anni prima di quello di Jackie Robinson in Major League, e questo fece del ragazzo della Louisiana un autentico pioniere.

Il racconto completo? leggetelo a questo link.

Pubblicato il 20 aprile 2019

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baseball cards – 4

LA PERSONIFICAZIONE DELLA VOLONTA’

Jim Abbott  (Flint, 19 settembre 1967)

jim abbott

James Anthony Abbott, mancino nativo del Michigan, giocò dal 1989 al 1999 nel ruolo di lanciatore: in carriera 888 strike out, 650 basi su ball, 791 punti concessi, 4,25 di media PGL. Per i cultori delle statistiche un curriculum  insipido, senza apparentemente nulla di eclatante. Se non fosse per una variabile tutt’altro che consueta: Abbott è nato con una mano sola, nonostante ciò ha lanciato dieci anni ai massimi livelli della Major League, grazie ad tecnica unica ed alla propria incrollabile forza di volontà. La storia vuole che fu suo padre  ad ispirarlo: “Per lanciare ti serve una mano, e una mano ti serve per prendere. Quindi, rispetto a quello che fanno gli altri, non ti manca proprio niente.”  Durante le partite, Jim indossava un guantone sul braccio destro; dopo ogni lancio infilava la mano sinistra nel guanto, raccoglieva la giocata difensiva o riprendeva palla di ritorno dal catcher. Poi incastrava il guanto nell’incavo del braccio destro, lo sfilava per afferrare la pallina, e si preparava per un nuovo lancio. In caso di bunt avversari, o di battute corte nei pressi del monte di lancio, non di rado effettuava la presa a mano nuda, non avendo il tempo di calzare il guanto.  Dopo una stagione da protagonista a livello di college, Abbott fu scelto come portabandiera degli USA nel giochi panamericani del 1987; l’anno successivo guidò la propria nazionale alla finale dei mondiali disputati in Italia, persa contro Cuba. Appena un mese dopo, trionfò alle Olimpiadi di Seul vincendo la finale contro il Giappone. Eletto “rookie dell’anno” nel 1989 con la maglia degli Anheim Angels, rimase con i californiani fino al 1992. Passato agli Yankees, il 4 settembre del 1993 fu protagonista di un “no hitter” (una partita completa senza concedere valide all’avversario) contro i Cleveland Indians: tra le fila della tribù battevano i primi colpi fenomeni (anche statistici) come Kenny Lofton, Jim Thome e Manny Ramirez. Così, giusto per dire. Jim Abbott finì la carriera con la maglia dei Milwakee Brewers, in National League; qui,non essendo previsto il battitore designato, il lanciatore si trovò a debuttare anche nel box, mettendo a segno due valide nella stagione 1999 prima del definitivo ritiro dallo sport professionistico.

Come dite? ci sarebbero stati altri pitchers da mettere in vetrina prima di lui (Maddoux, Clemens, Ryan)?  ovviamente si,  eppure riteniamo che quella di Abbott sia una delle cards più preziose del nostro album: perché è una storia di sport come solo lo sport sa creare, una storia vera e commovente di abnegazione e tenacia, che insegna l’importanza di credere nei propri sogni e la futilità di qualsiasi giudizio e pregiudizio su cosa debba essere la “normalità”.

pubblicato il 9 aprile 2019

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recensioni

NO TIME FOR “LOSERS”

CHE BOTTE SE INCONTRI GLI ORSI, di Micheal Ritchie (Usa, 1976, fantastico, sportivo). Con: Walter Matthau, Tatum O’Neal, Vic Morrow, Jackie Earle Haley

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Morris Buttermaker, scalcinato ex giocatore dedito al sigaro e alla bottiglia, ridotto a pulire piscine per sbarcare il lunario, viene ingaggiato suo malgrado da un padre tifoso come allenatore degli Orsi, iscritti all’ultimo momento alla Little League cittadina. La squadra è formata esclusivamente da ragazzi scartati da altre formazioni per scarse capacità tecnico-sportive: spiccano un lanciatore miope ed emotivo, un ricevitore in sovrappeso, un interbase con la sindrome di Napoleone, un esterno afroamericano con scarsa fiducia in sé stesso, uno spilungone topo di biblioteca, due ragazzi messicani che non parlano inglese e un bambino gracile e timidissimo. Buttermaker, senza particolare convinzione, guida l’improbabile compagine alle prime inevitabili e cocenti sconfitte; tuttavia, resosi conto di quanto la situazione possa far soffrire i ragazzi, inizia a mettere maggiore impegno nella loro educazione, cercando nel frattempo nuovi giocatori. Entrano così in squadra una eccentrica lanciatrice, figlia di una ex di Buttermaker, e infine il più tosto atleta e piantagrane della zona. La squadra acquista fiducia e inizia a vincere, fino a raggiungere un’insperata finale contro i campioni locali. L’ultima partita sarà per tutti i giocatori un’occasione di riscatto; per Buttermaker, e tanti altri adulti, la dimostrazione che la vittoria in fondo non è tutto.

Diretto da Micheal Ritchie (più tardi regista di un’altra pellicola sportiva, Una bionda per i Wildcats), Che botte se incontri gli Orsi è una commedia classica leggera ma non banale, che mischia humor e sentimento con frizzante eleganza. Seppur non sempre verosimile, la trama è ottimamente servita da un cast di spessore: Walther Matthau giganteggia nel ruolo del protagonista, il compianto Vic Morrow in quello dell’allenatore degli Yankees; Tatum O’Neal (premiata con l’Oscar appena due anni prima per l’interpretazione in Paper Moon) è equilibratissima nel ruolo di Amanda, ruvida ma affettuosa verso il suo allenatore in cui vede forse la figura paterna. Nei panni di Kelly Leak, che arriva al campo in Harley Davidson, il quasi debuttante Jakie Earle Haley (Watchmen, Shutter Island, Lincoln). Tra le tante le tante gag da ricordare scegliamo il dubbio aneddoto del protagonista, che a più riprese racconta ai ragazzi la volta in cui eliminò Ted Williams con tre lanci. Da questo film sono state tratte una serie televisiva (“La gang degli Orsi”, con Jack Warden), due sequel e un remake (2005).

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baseball cards – 3  

QUARANTADUE

Jack Roosevelt “Jackie” Robinson, (Cairo, 31 gennaio 1919 – Stamford, 24 ottobre 1972)

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Il 15 aprile 1947, allo stadio Ebbetts Field di Brooklyn, debuttò in Major League l’uomo che cambiò per sempre il mondo del baseball ponendo fine a sessant’anni di segregazione razziale in campo sportivo. Si chiamava Jackie Robinson,  proveniva dalla Negro League – il campionato professionistico riservato agli afroamericani – ed era un ottimo interbase e un prolifico battitore. Soprattutto, dalla fine dell’800 fu il primo nero a scendere in campo in un “gioco di bianchi per i bianchi”, onore ed onere che non rese certo facile la sua carriera. Insultato dal pubblico, colpito duro dagli avversari, inizialmente osteggiato perfino dai compagni di squadra, Jackie dovette peraltro adattarsi a giocare in seconda base, poiché il suo ruolo era già occupato dal futuro capitano dei Dodgers, Pee Wee Reese. Robinson si fece largo grazie al proprio talento, alla propria costanza e all’appoggio incondizionato del General Manager Brach Rickey e dell’allenatore Leo Durocher. “Sei bravo, e questa è la sola cosa che conta”, lo assicurò Rickey, mentre Durocher rispose così ai giocatori che minacciavano addirittura uno sciopero nel caso Robinson fosse rimasto in squadra: «Non mi importa se il ragazzo è giallo o nero, o se ha le strisce come una zebra. Io sono il manager di questa squadra e dico che lui gioca. C’è dell’altro, io dico che lui ci può rendere tutti ricchi. E se qualcuno di voi non ha bisogno di soldi, farò in modo di cedervi”. Le sue prestazioni in campo finirono per convincere il resto del gruppo; lo stesso Pee Wee Reese aprì la strada a un nuovo modo di vedere le cose schierandosi in difesa dei diritti del compagno: “Puoi odiare un uomo per molte ragioni. Il colore non è una di queste”.

Robinson giocò coi Dodgers  fino al 1956, vincendo le World Series solo nel 1955. Inafferrabile tra le basi, stabilì il primato di rubate nel 1947 e nel 1949, anno in cui la sua media battuta raggiunse un eccellente .342. Disputò anche la mitica finale del 1951 contro i Giants, decisa a favore di questi ultimi dal fuoricampo di Bobby Thompson ai danni del pitcher Ralph Branca (passato alla storia come “Il colpo sentito in tutto il mondo”, esaltato anche nel romanzo capolavoro di Don De Lillo Underworld).

Dopo il ritiro, soffrì di una invalidante forma di diabete, si impegnò in politica (era convintamente repubblicano) e come ambasciatore nel campo dei diritti civili. Morì nel 1972, e nel 1996 la Major League tributò alla sua storia un onore senza precedenti né repliche: il ritiro da tutte le squadre del suo numero di casacca, 42. Un numero che ogni giocatore indossa esclusivamente nelle partite del 15 aprile, proclamato dal 2004  Jackie Robinson Day.

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baseball cards – 2 

IL BAMBINO

George Herman “Babe” Ruth    (Baltimora, 6/02/1895 – New York, 16/08/1948)

babe ruth

A sette anni marinava la scuola, beveva, masticava tabacco e aveva già avuto a che fare con la legge. I genitori lo rinchiusero in un collegio di frati, dove quell’incorreggibile ribelle cominciò a giocare a baseball. Segnalato ai Baltimore Orioles come lanciatore, debuttò nel 1914: i compagni di squadra lo soprannominarono “Babe”  per la sua giovane età e per atteggiamenti ragazzeschi. Ceduto l’anno successivo ai Boston Red Sox, vinse per tre volte le World Series, mentre emerse il suo talento non comune anche come battitore. Nel 1919 il proprietario di Boston, oppresso dai debiti, cedette in blocco i giocatori migliori ai fino allora anonimi New York Yankees; per questi iniziò uno tra i più memorabili periodi di successi della storia dello sport, mentre Boston non vinse più un campionato fino al 2004, anno in cui la “maledizione del Bambino” fu spezzata.

Con gli Yankees, Ruth giocò fino al 1934, polverizzando la maggior parte dei record offensivi: la sua strabiliante media bombardieri nell’anno d’esordio fu superata solo nel 2001 (da Barry Bonds). Realizzò in carriera 2873 valide, con 2213 punti battuti a casa, 714 fuoricampo e una media battuta complessiva di 342. Test clinici avanzati stabilirono che avesse riflessi visivi e tempi di reazione eccezionalmente superiori alla media; e sulle basi correva agilmente a dispetto del fisico massiccio. Terzo nel lineup ribattezzato a buon diritto “murderers’ row”, Ruth vinse nuovamente le World Series nel 1923, 1927, 1928 e infine nel 1932. Nella finale di quella stagione entrò definitivamente nel mito per aver “dichiarato” in anticipo un proprio fuoricampo: prese due strike, puntò la staccionata e spedì la palla oltre la recinzione. Fu MVP dell’American League nel 1923, due volte All Star, dodici volte primatista nella classifica degli homerun, sei in quella RBI.

Nonostante i successi sportivi ne avessero fatto un uomo realizzato, le tendenze inquiete e turbolente non lo abbandonarono mai. Icona dei ruggenti anni Venti, amò all’eccesso il cibo, l’alcool, il fumo e le donne. Si ritirò  quarantunenne nel 1935. Morì di cancro alla gola nel 1948: due mesi prima, gli Yankees ritirarono per sempre la maglia col suo numero 3.

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recensioni

IL PIU’ INCREDIBILE COMPLOTTO DELLA STORIA DELLO SPORT

Philip Roth – IL GRANDE ROMANZO AMERICANO –  Torino, Einaudi, 1973

il grande romanzo americano

Il talento, la memoria e la vecchiaia hanno reso Word Smith il più stimato cronista di baseball di ogni tempo. E’ quindi lui a svelare al lettore, senza timore di essere smentito, i segreti che hanno portato all’oblio della Lega Patriota, terza divisione del campionato americano da tempo soppressa. Fornace di campioni del calibro di Luke Gofannon e soprattutto di Gil Gamesh, il lanciatore perfetto emigrato da Babilonia, la Lega Patriota scivola inesorabilmente verso l’abisso, travolta da scandali e da una diabolica congiura comunista. Non prima di essersi comunque coperta di ridicolo, tra franchigie ostaggio di spregiudicati uomini di affari, panchine affollate di mercenari improbabili, tifoserie avide di sensazionalismo e sempre più assuefatte alla estetica del brutto.

Tutto il talento, la maestria e la dissacrante fantasia di Philip Roth esplodono in quello che probabilmente è il suo lavoro più originale, più fresco e più completo. In anticipo rispetto ai consacrati capolavori della maturità (La macchia umana, Indignazione, ovviamente Pastorale americana), Roth distilla l’ironia feroce intravista in Lamento di Portnoy affidando  la narrazione a un protagonista di poco precursore di Zuckerman, alter ego di tutti i suoi momenti creativi più felici. Nella trama il baseball è ovunque, a un tempo cornice e leitmotiv: l’autore mescola a piene mani realtà e finzione in un crescendo di situazioni, espedienti narrativi e personaggi folgoranti. Su tutti gli scalcinati Mundys, squadra di Port Ruppert perennemente costretta alla trasferta dopo la perdita del proprio stadio: una volenterosa ma desolante compagine che schiera un lanciatore senza un braccio, un ricevitore con una gamba di legno, un prima base incapace di battere da sobrio e un esterno che si impasta ripetutamente contro il muro in fondo al campo. Si raggiunge il sublime col capitolo sulla rivalità tra due nani (virtuoso e amato dalle folle il primo, iracondo e attaccabrighe il secondo), o nei disperati tentativi dell’unico campione dei Mundys di farsi vendere dalla società (che si scoprirà gestita direttamente da un uomo delle pulizie). Ucronia di raffinatissimo spessore – cifra stilistica che Roth rispolvererà in chiave storica ne Il complotto contro l’America – in cui sono perfettamente intuibili lo sdegno e la critica dell’autore verso le politiche USA ai tempi del maccartismo.

Curiosità: la prima edizione italiana, ormai oggetto da collezione, contiene numerosi espedienti di traduzione, tentativi generosi di facilitare la comprensione terminologica al pubblico nostrano.

pubblicato il 8/02/2019

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Segnalazioni

IL BASEBALL AZZURRO SU RAI UNO

CHE TEMPO CHE FA, Rai 1, puntata del 3/02/2019

Alessandro Vaglio con Fabio Fazio e Fabio De Luigi a Che Tempo Che Fa 20190203 (RAI)

Per quanti se la fossero persa, o nell’attesa avessero gettato la spugna (visto l’orario tardo della programmazione, quasi a mezzanotte),  è disponibile su l canale RAI Play  l’ultima puntata di Che Tempo Che Fa, celebre contenitore di intrattenimento nazionale. Tra gli ospiti della serata, stando in tema di Nazionale, il capitano azzurro e della Fortitudo Bologna Alessandro Vaglio , accolto oltre che dal conduttore anche da Fabio De Luigi, attore con interessante passato sul diamante a Rimini.

Vaglio è stato testimonial dei prossimi impegni del Team Italia, atteso all’Europeo di Bonn ed al Torneo di Qualificazione Olimpica a Bologna e Parma (18-23 settembre prossimi). Per il movimento italiano, una bella opportunità di visibilità in uno degli spazi più seguiti della televisione.

Rivedi la puntata a questo LINK (necessaria la registrazione)

pubblicato 5/02/2019

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TV Classics

L’INVINCIBILE CASEY

AI CONFINI DELLA REALTA’, Stagione 1 ep. 35, prima tv 17/06/1960.  Scritto da Rod Serling, diretto da Robert Parrish; con Jack Waden, Robert Sorrells.

casey

Una mediocre squadra di baseball ingaggia uno strano lanciatore mancino che, grazie alla sua potenza, trascina i compagni in testa alla classifica. Sarà un medico sportivo, che lo visita dopo un infortunio, a scoprire il segreto del campione: Casey è in realtà un robot, e non potrà continuare la propria carriera a meno di dimostrare di essere in minima parte umano. Allora l’allenatore della squadra e lo scienziato creatore del robot decidono di dotare l’automa di un cuore: la scelta si rivelerà però disastrosa per il rendimento del pitcher.

“L’invincibile Casey” è solo uno dei numerosi capolavori della serie di culto Ai confini della realtà, frutto della instancabile fantasia di Rod Serling, affiancato nelle diverse stagioni da sceneggiatori d’eccezione come Ray Bradbury, Richard Matheson e Charles Beaumont. Gli episodi di questo telefilm, autoconclusivi e di venticinque minuti ciascuno, ridefinirono i canoni del genere fantastico e della messa in scena televisiva: cortometraggi a basso costo, magistralmente scritti (in questo caso geniale la chiave di lettura: la pietà come freno inibitore della performance) e finemente interpretati da alcuni dei migliori caratteristi allora in circolazione. In questo episodio l’allenatore della squadra è interpretato da Jack Warden; oltre ad una lunghissima carriera cinematografica, negli anni ’80 Warden recitò anche nel ruolo dell’allenatore nella serie “La gang degli orsi”, tratta dal film “Che botte se incontri gli orsi”. Altra
chicca per i più nerd: Casey gioca nella squadra degli Zephyrs; in “Homer alla battuta”, episodio della terza stagione dei Simpson, il Signor Burns allena la squadra di baseball della centrale nucleare indossando proprio una casacca col logo Zephyrs.

pubblicato il 1/2/2019

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baseball cards – 1 

COLPEVOLE O INNOCENTE?

“Shoeless” Joe Jackson (Pickens County, 16/08/1887 – Greenville, 5/11/1951)

shoeless joe jackson

Nel 1919 otto giocatori dei Chicago White Sox, totalmente favoriti per il titolo assoluto, entrarono in un giro losco e molto più grande di loro, acconsentendo a truccare le partite delle World Series contro i Cincinnati Reds. La frode venne accertata da un tribunale appositamente costituito e presieduto dal giudice Kenesaw Mountain Landis, investito di pieni poteri dal Congresso degli Stati Uniti. Tutte le circostanze della vicenda si potevano considerare senza precedenti, e nella stessa direzione andò la sentenza. I giocatori vennero dichiarati colpevoli di cospirazione aggravata, evitando il carcere solo una volta dimostrato di  essere stati circuiti da un’organizzazione di cui avevano capito poco o nulla; e dalla quale, per ulteriore beffa, non incassarono neanche un centesimo. Tuttavia, in considerazione dell’affronto rivolto al Baseball non solo come sport e professione ma come pilastro dello stile di vita americano, gli otto furono squalificati a vita dall’attività agonistica. Più infamante di qualsiasi altra condanna fu il loro immediato e durissimo discredito sociale:  “Che questi volti restino impressi nella vostra memoria”, gridava su ogni giornale del paese la didascalia in calce alle foto dei colpevoli.

Chick Gandill, l’ultimo del gruppo, si spense nel 1970 all’età di ottantadue anni. Il primo ad andarsene, nel 1951, era stato “Shoeless” Joe Jackson, probabilmente il più grande giocatore di quella magnifica e disgraziata squadra. Originario del South Carolina, mancino, arrivato a Chicago dai Cleveland Indians,  Jackson fu soprannominato “lo scalzo” dopo essersi tolto in una partita le scarpe nuove che gli avevano provocato vesciche. Straordinario battitore (375 di media, 1772 valide, 54 fuoricampo, 785 RBI), le statistiche a lui riferite rendono tutt’oggi estremamente dubbio credere che avesse fatto anche solo una cosa per perdere il campionato del ‘19. Secondo alcuni si chiamò fuori dalla congiura, per altri rimase in silenzio per quieto vivere, altri ancora ritengono che cercò addirittura di vincere da solo. Per la condanna bastò all’accusa che lui sapesse, oltre ad una deposizione firmata con una X: Jackson era infatti semianalfabeta, e ad oggi il suo autografo è uno dei più rari e ricercati dai collezionisti.  La storia del campione screditato ha ispirato due film: il biografico “Otto uomini fuori” (1988) e  “L’uomo dei sogni” (1989).

pubblicato il 22/01/2019

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recensioni

SE LO COSTRUISCI, LUI TORNERA’

L’UOMO DEI SOGNI, di Philip Alden Robinson (Usa, 1989, fantastico, sportivo). Con: Kevin Kostner, Ray Liotta, James Earl Jones, Burt Lancaster

L_uomo_dei_sogni

Ray Kinsella è un giovane agricoltore dell’Iowa, con una bella famiglia e un conflitto mai risolto con la figura paterna. Un giorno sente una voce dal nulla suggerirgli di costruire un campo da baseball nella sua tenuta e Ray, seppure incapace di capirne le ragioni e anche ponendo una gravosa ipoteca sul proprio futuro, segue la visione. Sul campo in mezzo al grano si materializzeranno per tornare a giocare i grandi campioni del passato, compresi “Shoeless” Joe Jackson e gli altri White Sox squalificati a vita per aver venduto le World Series 1919. La voce tuttavia continua a inviare messaggi a Ray, che esaudendo un compito per volta scoprirà nel finale il vero motivo di tanta magia.

Candidato agli Oscar 1990 per le categorie miglior film, miglior sceneggiatura e miglior colonna sonora, e liberamente tratto dal romanzo “Shoeless Joe” di W. P. Kinsella, L’uomo dei sogni è un assoluto film di culto, tra le pellicole più amate dagli appassionati di baseball di tutto il mondo.  Delicato, emozionante e mai sopra le righe, il film vola sulle ali di una trama che a poco a poco aumenta di intensità dispiegando memorabili colpi di scena. Il campo perduto nel grano si impone progressivamente come luogo miracoloso (forse un angolo di Paradiso?), e i personaggi vi appaiono e spariscono irreali come fantasmi eppure innegabili come lo scorrere del tempo. Il lungo e non semplice viaggio del protagonista – prima alla ricerca di uno scrittore disilluso, poi di un medico che avrebbe voluto essere un campione, in fondo alla ricerca di sé stesso – diventa metafora di un’America in cammino, sconvolta e travolta dalla sua stessa storia e dalle proprie innumerevoli contraddizioni, ma anche capace di riscoprirsi e ritrovare la pace grazie alla propria unica costante: il gioco del baseball. Come afferma fiducioso uno dei protagonisti, “Questo campo, questa partita, sono parte nel nostro passato. Ci ricordano tutto ciò che un tempo era buono… e potrebbe tornare ad esserlo”. Grande prova degli attori, tra i quali spicca l’ultima interpretazione del grande Burt Lancaster.

pubblicato il 20/01/2019

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segnalazioni

L’ULTIMA PARTITA – LA STORIA DI LOU GEHRIG 

Di Mario Mascitelli, compagnia Teatro del Cerchio, Parma

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Lo confessiamo: appena ci è stato segnalato ci è salita la curiosità di correre a vedere, alla prossima rappresentazione (speriamo in una grande tournée), la piece scritta e diretta da Mario Mascitelli, Direttore Artistico del Teatro del Cerchio di Parma. L’ultima partita mette in scena, in forma di monologo e in prima persona, la storia dell’indimenticabile campione dei New York Yankees; dai successi sportivi alla battaglia contro la sclerosi laterale amiotrofica, che Gehrig affrontò con grande coraggio e dignità.

Ci siamo documentati il giusto, più che altro per non perderci la sorpresa e il gusto quando siederemo in sala, ma tutto quello che abbiamo letto e visto di questo spettacolo ci dice che sarà un’esperienza imperdibile per ogni appassionato di baseball e spettacolo.

Per saperne di più, visitate il link della compagnia Teatro del Cerchio o leggete l’intervista rilasciata dal regista a Duels  

Pubblicato il 17/01/2019

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recensioni

QUANDO IL SOGNO AMERICANO E’ ELIMINATO

James Sturm – AMERICANA –  Bologna, Coconino Press, 2003

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Nel preziosissimo catalogo di graphic novel che ha fatto di Coconino Press una delle case editrici più stimate dagli amanti del genere, è forse ancora possibile trovare questa chicca, pubblicata nel 2003, e troppo presto finita ai margini della vetrina. Facile addurre la solita motivazione, che Americana non abbia incontrato il favore del pubblico italiano per la sua poca confidenza con il mondo del baseball. Se questa fosse davvero la ragione, chi scrive suggerisce al lettore un breve corso intensivo seguito dal doveroso recupero di questo piccolo capolavoro di James Sturm, prolifico autore della generazione post Art Spiegelman.

Un paese di tradizioni e contraddizioni solo apparentemente incrollabili funge da sfondo (o ne è il protagonista?) alle storie di questa raccolta; dopo l’assaggio, con la grottesca caricatura dell’imbarazzante manager di una squadra di rednecks, l’autore batte nel finale il proprio fuoricampo con Il mitico colpo del Golem. Il racconto narra le gesta di una squadra itinerante di giocatori ebrei (le Stelle di David) costretti ad affrontare il disprezzo degli avversari e il serpeggiante razzismo delle cittadine di provincia. Un impresario intuisce nel gruppo un potenziale commerciale, e in cambio di una forte sovvenzione convince l’allenatore a schierare il proprio miglior battitore vestito e truccato come il leggendario Golem. Inizialmente il gigante incute rispetto e timore, oltre ad attirare sempre più curiosi alle partite; ma la speranza della sua protezione sarà effimera.

In bilico tra Maus e Philip Roth, le tavole di Sturm raccontano in uno splendido bianco e nero l’illusorietà del sogno americano, dipingendo una società troppo schiava delle proprie paure per poter credere che un altro mondo sia possibile; lucidamente disilluso, l’autore tratteggia il ritratto disgregato di una comunità incapace di aggrapparsi alle proprie ultime sicurezze, tra le quali il baseball diventa metafora di un ultimo, ormai spento barlume di ordine.

Pubblicato il 15/01/2019

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